Un futuro migliore per il Paese è possibile


La crisi in atto colpisce in modo particolare il nostro Paese per l’insufficiente capitalizzazione delle imprese manifatturiere italiane. La facile strada della delocalizzazione delle attività produttive in paesi a basso costo di manodopera, con meno vincoli sociali e la scelta di molti imprenditori di non investire in innovazione hanno accelerato i processi di crisi con pesanti ricadute occupazionali, difficilmente assorbibili da altri settori anticiclici, come l’agroalimentare o il terziario. Le mancate o sbagliate politiche industriali hanno ridotto l’interesse di imprese straniere d’investire e creare occupazione in Italia. I mai completati o avviati investimenti infrastrutturali, le mancate riforme della Pa, l’alto e farraginoso peso fiscale, i costi indiretti sul lavoro e diretti per l’energia sono elementi che disincentiverebbero chiunque dall’investire in Italia.

Il presente quadro di Governo sembra orientato verso scelte caratterizzate da elementi di novità e di fiducia. Si pensi al cambio generazionale del gruppo dirigente, alla velocità di realizzazione delle riforme, lavorando con la modalità dei progetti, dove oltre agli obiettivi vengono indicati anche i tempi di realizzazione, alla credibilità nell’ambiente internazionale, al consenso elettorale molto alto e alla debolezza o all’assenza di una minoranza in grado di proporsi come alternativa. Ma, pur nel rispetto per lo sforzo profuso dal Governo per avviare riforme costituzionali, necessarie come premessa per successive riforme strutturali, chi lavora quotidianamente nel mondo del lavoro e del sociale ha l’impressione che i tempi a disposizione siano scaduti e che l’economia chieda ad alta voce una forte scossa, fatta di importanti investimenti.

Si vorrebbe, infatti, che il dibattito politico fosse orientato su alcune azioni indispensabili, come la riduzione dei 180 miliardi l’anno di evasione fiscale. Quanto si potrebbe fare riducendo anche solo del 50% l’evasione? Con 90 miliardi l’anno da investire si ritornerebbe presto ad un Paese dove vivere non è un problema.

E le scelte coerenti servono anche per Verona, che vorrei fosse “città intelligente”, dove il vivere bene sia sinonimo di ambiente pulito, dove vengano incentivate le imprese innovative che producono tecnologie per ridurre l’impatto ambientale, valorizzando le energie alternative o la conservazione dei beni artistici e ambientali, attività insomma ad elevato valore aggiunto, con bassi investimenti e alte intelligenze. Una città di persone, imprese, organizzazioni sociali orientate a creare benessere e non consumismo fine a se stesso, ma legate ad una vita giusta, dove l’uomo sia partecipe e non vittima di un progresso senza limiti.

Chi amministra una comunità deve avere ben chiaro cosa è il bene comune e quali sono i soggetti da coinvolgere per realizzare il meglio per i propri cittadini. Quando i soldi sono pochi la possibilità è solo una: spenderli bene, senza spreco ed essere innovativi.

La mia generazione, probabilmente per alcuni in buona fede, si è lasciata prendere la mano nel sacrificare ogni cosa per i consumi. La stessa ha però ora il dovere, nel tempo che le rimane, di spiegare ai giovani e di lavorare con loro perché quella strada possa essere cambiata o almeno corretta.


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