Si ritorna a parlare di pensioni


Puntualmente, da almeno 20 anni, ogni volta che si inizia a discutere di contenimento della spesa e di debito pubblico s’ipotizzano interventi sul sistema previdenziale, impropriamente definiti: riforma delle pensioni.

Purtroppo quasi mai si tratta di una vera riforma, sono interventi unicamente finalizzati al contenimento della spesa e quasi mai strutturali del sistema. Molto spesso invece rinvii di spesa.

Il sistema previdenziale Italiano, di tipo mutualistico, prevede che i soldi dei contributi versati da chi lavora vadano a costituire le pensioni. Inoltre, ciò garantisce una pensione minima vitale anche a chi non ha potuto, durante la vita, versare contributi previdenziali.

Il precedente sistema, in vigore prima dell’ultima guerra mondiale e definito a capitalizzazione riconosceva, sottoforma di rendita mensile, il totale dei contributi versati durante il lavoro. Il sistema attuale ha il  vantaggio che i soldi, non essendo capitalizzati, non vengono erosi da eventuali inflazioni ma mensilmente vengono versati come contributi e spesi per le pensioni.

Questo sistema ha un’evidente tallone d’Achille ed è rappresentato dal rapporto tra quanto viene versato da chi lavora e quanto viene pagato per pensioni. Per decenni, a partire dagli anni ’50 e per tutti gli anni ’70 erano molte di più le persone che lavoravano rispetto a quelle in pensione e la spesa era assolutamente sostenibile. Ma la scarsa natalità e l’aumento dell’età media delle persone porta ad avere oggi più pensionati che lavoratori.

Il primo intervento pesante sul sistema porta la firma di Giuliano Amato che nel 1992 con la maxi manovra da 90.000 miliardi di lire interviene sulla spesa previdenziale. Poi,  nel 1995, Il governo Dini ha emanato forse l’unica vera riforma del sistema previdenziale dal dopo guerra. Ma non è stata sufficiente se da allora quasi tutti i governi in carica sono intervenuti per ulteriormente ridurre la spesa previdenziale.

Tutto ciò ha comportato scarsa fiducia, da parte dei lavoratori, sul un futuro previdenziale con conseguenze nefaste sull’attenzione che ogni uno di noi dovrebbe avere sulla propria posizione assicurativa.

Ma come è possibile convincere i lavoratori della necessità di provvedere al pagamento dei contributi se, con l’attuale sistema previdenziale, un lavoratore dipendente per 40 anni andrà in pensione con un importo mensile di circa 500 euro e ad uno che non ha mai lavorato, a 65 anni, verrà riconosciuto lo stesso importo? Nell’ultimo decennio chi ha salvato le pensioni in Italia sono stati, come è noto, gli immigrati che hanno e versano preziosi contributi previdenziali.

In questi giorni trapelano dagli uffici del governo indiscrezioni di interventi di risparmio della spesa previdenziale. Nel frattempo si è potuto recentemente e si potrà, in futuro, beneficiare di prepensionamenti con poco più di 30 anni di contributi indipendentemente dall’età anagrafica.

A Verona e provincia i lavoratori dipendenti che versano i contributi obbligatori all’INPS sono circa 230.000 e le pensioni in pagamento del fondo lavoratori dipendenti sono circa 128.000 con un importo medio di euro 930 al mese, credo che per quanto riguarda il lavoro dipendente, a Verona, non ci sia bisogno di ulteriori versamenti per portarlo in equilibrio.

 Massimo Castellani
Segretario Generale Cisl Verona


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